Bruno Di Maio persegue da tempo una sua strada coerente e fortemente personalizzata che con coscienza razionale, solitaria ed autonoma, ha tagliato quei ponti che la legano alle avanguardie storiche dell’arte moderna, come al filone figurativo tradizionale.
Di Maio, con una rigorosa e schiva individualità, si tiene lontano dai programmi. E non si lascia abbacinare dal miraggio delle molteplici lusinghe provenienti dal gioco delle tendenze estetiche alla moda, di volta in volta messe in circolazione da certi estetologi-manager.
A prima vista si è tentati di catalogare la sua opera in quella marea di immagini pletoriche sciorinate dai citazionisti, che da qualche tempo dilaga nel campo dell’arte. Ma poi ci si accorge che la sua pittura è in una posizione dagli intendimenti diversi e contrastanti rispetto alle proposte dei citazionisti. Una posizione ancor più anacronistica e “antimoderna”, che mette scopertamente in mostra, quasi con vanità, la sua assoluta libertà di amare, senza falsi pudori e con profonda nostalgia, la pittura classica. Ma nello stesso tempo di volersi sottrarre ad ogni esplicito riferimento alla iconografia dell’arte antica e ad ogni ambigua ascendenza museale.
Per Di Maio raccogliere oggi l’eredità della classicità rinascimentale significa compiere una rivisitazione a quel ritorno al mestiere di dechirichiana memoria, con la consapevolezza di rendere attuale e di rigenerare la qualità evocativa del linguaggio di ieri per il racconto di oggi. Si avverte nel taglio compositivo dal ricco empito barocco e nella intonazione psicologica della sua opera la tentazione di riprendere il discorso sulla sostanza storica della tradizione della grande maniera italiana. E vi è il richiamo di una pittura magniloquente, felice, carnale, intessuta di luce-colore e di forma-colore, dove gli elementi del suo repertorio sono portati al massimo della tensione lirica, impregnata di poesia fatta di suggestioni silenziose, senza alcuna implicazione decorativa e culturalistica.
L’originalità della visione si concentra sulla sontuosità della materia e sulla immanenza chiaroscurale e drammatica della luce, che scivola sugli oggetti e sui corpi, riverberando le penombre dal profondo in continuo abbandonarsi agli impulsi e alle motivazioni di un racconto carico di scatti e di sorprese, che provocano un tumultuoso avvicendarsi di sensazioni affondanti nell’humus della nostalgia.
Mario Penelope, 1983